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giovedì 15 marzo 2012

Espritu Esa Ala, la madre di tutte le grotte

Sanctum (2011) di A. Grierson



Per lo sceneggiatore Andrei Wight, che ha vissuto una storia simile, l’incontro ravvicinato con la morte descritto dal film è un’esperienza che lascia il segno in chi la vive. E così la racconta portando la situazione all’estremo e osservando cosa capita ai protagonisti.
Cos’è Esa Ala, la madre di tutte le grotte? Vogliamo guardarla con gli occhi di Frank, quando prova a spiegare al figlio la sua passione per la speleologia:

Qui sotto riesco a dare un senso ad ogni cosa. Capisci cosa voglio dire? È come la mia chiesa. Posso guardarmi allo specchio e dire: questo sono io, è casa mia.

A muovere Frank non è solo un desiderio di esplorare mondi che nessuno ha mai visto ma è soprattutto quello di esplorare sé stesso, di trovare nella bellezza della natura uno specchio per comprendere e dare senso alla vita. La vita è proprio come Esa Ala: bella e terribile, promettente ma che può da un momento all’altro trasformarsi in un incubo e farci incontrare la morte.

[00:01:36] È proprio di morte che parla la prima scena del film: Josh sommerso dall’acqua al buio privo di sensi. Lo spettatore capisce che il ragazzo, se non è ancora morto, lo sarà presto perché non respira ed è ferito. Quando di colpo apre gli occhi inizia la storia. Sanctum è il racconto di come una scena del genere può comunque trasformarsi e cambiare il suo significato perché anche nella situazione più buia della vita c’è sempre, a volte molto nascosto, un passaggio per la luce ed è possibile trovarlo. Un educatore è colui che sa tutto questo e che accompagna chi gli è affidato attraverso cunicoli tortuosi, bui e sommersi, fino a dargli la possibilità di rivedere la luce e di essere libero. Vediamo come.

I personaggi principali prendono forma con caratteristiche così stereotipate da sembrare caricature e questo li rende molto identificabili: Frank McGuire, il più stimato esploratore speleo-subacqueo del mondo; Carl Hurley, un capriccioso miliardario alla ricerca di avventure mozzafiato ed estreme; Victoria, fidanzata di Carl e abile arrampicatrice; Josh McGuire, figlio di Frank, abile speleologo ma ancora immaturo e ingenuo. Il loro viaggio nel cuore della terra vede Frank nel ruolo di educatore, mentore e maestro del gruppo: l’unico capace realmente di portare in salvo. “È un tipo pazzesco il tuo vecchio, una volta che lo conosci”, confida George a Josh ma quest’ultimo non  è della stessa idea: per lui il padre è solo uno “stronzo spietato nazista”  che ha “trascinato tutti nel suo grande sogno impossibile”. Anche Carl, che considera Frank uno dei massimi speleologi,  sopporta mal volentieri il suo carattere troppo duro, pignolo e insensibile. Eppure, sotto questa apparenza di personaggio senza cuore, si nasconde un’umanità di rara bellezza che merita di essere conosciuta e imitata, almeno per chi vuole imparare qualcosa in più sull’educazione.

1. Perché Frank è il migliore in quello che fa
[00:05:30] Facciamo conoscenza con Frank mentre è in acqua, intento a provare riprovare i movimenti che gli possono essere necessari durante l’immersione. Impressiona molto che sta facendo esercizio non un novellino ma il miglior speleologo del mondo. Frank sa che in un mestiere come il suo, dove anche la più piccola distrazione o inadempienza si può trasformare in un pericolo mortale per sé e per chi sta intorno, non può permettersi di compiere errori. Così eccolo alle prese con se stesso: con la propria storia che si fa esperienza e con il proprio corpo che tiene allenato e pronto per ogni evenienza. Anche un educatore deve sapere bene quello che fa, coglierne l’importanza e la serietà senza essere mai superficiale. Per un educatore, come per uno speleologo, non bastano le buone intenzioni e nemmeno il buon senso: c’è bisogno di una attenta e accurata formazione per fare bene il bene dell’altro. E non solo. Un educatore deve conoscere bene se stesso e deve approfondire sempre di più questa conoscenza per imparare dalla propria storia (che non è né una cosa automatica né facile) e per porre rimedio in tutti i modi, per quanto gli è possibile, ai pericoli che potrebbero rendere inutile o dannosa la sua azione educativa (pigrizia, distrazioni, abitudine,…). Inoltre un vero educatore conosce i propri limiti, e anche questa lezione ci viene da Frank, che più volte ammette: “Sono stanco, devo riposare”. I limiti, se conosciuti e integrati nella propria azione non sono una debolezza: sarebbe peggio e più irresponsabile, anche se molto più comodo, fare finta di niente e andare avanti, come invece fa Judes, che compie l’immersione senza essere pienamente in forma. Ma le conseguenze sono catastrofiche. Il vero educatore sa dove può arrivare e dove no,  non fa inutilmente l’eroe mettendo a repentaglio la propria vita e quella altrui.

Proprio come molti educatori, anche i compagni di avventura di Frank non si rendono assolutamente conto di quello che stanno facendo: si muovono sulla scena (in modo particolare Carl e Victoria), senza sapere dove andare.

Victoria sottovaluta l’impresa che deve realizzare: scende nella grotta come se fosse un passatempo tra tanti e non si accorge della reale posta in gioco. Si stupisce quando sente gli addetti ai lavori parlare di pericoli perché per lei tutto è bello e innocuo: provare a fare la speleologa è un divertimento come un altro. Proprio per questo non sopporta chi, come Frank, prende la cosa con troppa serietà. Victoria è come un educatore superficiale che inizia l’avventura educativa senza sapere bene in cosa consista e senza preoccuparsi di scoprirlo. “Che cosa può andare storto facendo sub in grotta?” è come dire “Perché preoccuparsi tanto? Cosa vuoi che sia?”

Carl sopravvaluta se stesso: conosce bene i rischi dell’avventura ma pensa che siano gli altri a dover stare attenti, quelli più deboli e meno astuti di lui. “Ehi Jim, questa grotta non può battermi”: è convinto che nessuno possa batterlo, nemmeno Esa Ala. Quando però si trova davanti al pericolo reale si accorge di non essere in grado di affrontarlo. Carl è come un educatore che si ritiene migliore di chiunque altro e si butta nella sfida impegnativa dell’educazione convinto di essere in grado di padroneggiarla con le proprie forze, da solo e meglio degli altri, che considera incapaci.

2. Frank non lavora da solo

Frank non lavora da solo: è circondato da molta altra gente che lo aiuta e che rende possibile l’impresa che vuole compiere. Senza le persone che, in diverso modo, collaborano con lui Frank non sarebbe mai arrivato ad esplorare Esa Ala come sta facendo. Ci sono proprio tutti nell’equipe di Frank e tutti sono importanti nel proprio ruolo piccolo o grande. Così c’è Carl con i suoi soldi, Jim che è il riferimento all’esterno, le persone che trasportano il materiale, i tecnici,… e Frank si fida così tanto dei suoi collaboratori da mettere nelle loro mani la sua stessa vita senza pensarci due volte. Così lo vediamo sicuro del preavviso che dall’esterno dovrebbero dare sull’arrivo della tempesta, sicuro che gli ancoraggi siano effettuati bene, sicuro che gli altri sappiano quello che fanno,… . Proprio per questo non accetta la mancanza di responsabilità di alcuni. Questo particolare lo si deduce dal motivo per cui Josh è finito sul “libro nero” del padre: doveva portare le bombole di Beilout e non l’ha fatto, comportandosi come un bambino. Josh è ancora immaturo: non si era accorto che la vita degli altri dipendeva anche dal piccolo impegno che si era preso, anche se apparentemente insignificante. Avere fiducia negli altri è rischioso ma è necessario e questo Frank lo sa bene. E sa anche che ci si può fidare solo di persone responsabili e competenti per quello che sono chiamati a fare, anche se non sono amici stretti. Ogni educatore dovrebbe avere nei propri collaboratori la stessa fiducia che Frank ha nei suoi, senza quindi avere la pretesa di avere tutto sotto controllo ma avendo la certezza che ciascuno, all’interno dell’equipe, porti avanti il proprio compito in modo responsabile. Non può esistere un’ equipe educativa che davvero funzioni, senza che esista come presupposto questa fiducia.

3. Il dramma della libertà

Il tema della libertà nel film è trattato in modo duro e spietato: nella grotta ognuno è libero di decidere se vivere o morire. La strada per la vita è tracciata da Frank, l’unico che può davvero portare a salvezza i protagonisti. Lo speleologo non conosce in anticipo dove sia l’uscita ma conosce il modo per trovarla e chi vuole rivedere la luce deve fidarsi di lui. Il regista ci mostra in modo chiaro che pur nell’oscurità e nel complicarsi delle situazioni, ciò che provoca la morte prima di Victoria e poi di Carl, è la scelta di non fidarsi di Frank. Se la scelta fosse stata diversa forse si sarebbero potuti salvare anche loro.

Da una parte abbiamo la libertà di Frank, che ha deciso di prendersi cura di tutti quelli che sono rimasti intrappolati nella grotta. Non gli interessa se siano simpatici o antipatici, se riconoscano il suo valore oppure no: lui vuole portarli tutti in salvo. Frank si comporta come un vero educatore che è disposto a rallentare il proprio cammino per accompagnare i passi di coloro di cui si deve prendere cura. Quello che sa sulle grotte, quello che la sua esperienza gli ha fatto imparare non è per sé ma viene messo a disposizione degli altri. E allora lo vediamo impegnato in prima persona a creare le condizioni perché tutti possano farcela… e lo fa non tanto con le parole ma con i fatti. È il contrario di quello che fanno tanti educatori, che a parole si prendono cura di tutti ma nei fatti si interessano solo dei più simpatici e amabili, lasciando gli altri al proprio destino.

[00:43:00] Nella scena in cui il gruppo sta per partire dal Campo Base per cercare un’uscita alternativa, Frank si trova nella situazione di un educatore che si deve scontrare con le resistenze di chi non vuole accettare un suo consiglio per un capriccio di orgoglio o perché troppo oneroso. In questo caso l’ostacolo è la libertà di Victoria. E cosa fa Frank? Insiste, alza la voce, cerca convincere, si arrabbia, dà spiegazioni: non vuole arrendersi troppo presto alla decisione di Victoria di non indossare la muta di una morta, quando invece è indispensabile. Solo quando vede che la ragazza è irremovibile, la lascia libera di fare come vuole. E nonostante la decisione presa si fosse rivelata effettivamente quella sbagliata, Frank non la lascia da sola: è sempre lui che, una volta giunti dall’altra parte, si preoccupa di trovare il modo di scaldare Victoria e di salvarle la vita. Si può fare un paragone con il nostro modo di educare: l’educatore è colui che indica la via, fa di tutto per portare chi si affida a lui sulla strada giusta che è la strada della vita, in alcuni casi può fare la voce grossa per far capire l’importanza di quello che sta dicendo e consigliando… ma questo per aiutare l’altro a fare la propria scelta, non per sostituirsi. Il vero educatore è colui che lascia anche la possibilità di sbagliare e di sbagliare in modo clamoroso. Anche in questa situazione l’educatore ha il ruolo importante di non abbandonare colui che ha fatto la scelta sbagliata ma di ricominciare da capo a cercare insieme a lui la via della vita.

4. La guida si lascia guidare

Da Frank traiamo un ultimo insegnamento sulla figura educativa: l’educatore è colui che non solo sa indicare la strada e sa accompagnare chi gli è affidato ma è anche colui che sa tirarsi indietro quando il suo compito è finito. E non solo: l’educatore, essendo anche lui un uomo che cerca la vita, è anche umilmente disponibile a lasciarsi educare.

[01:18] Emblematica è la scena dell’inversione dei ruoli tra Frank e Josh. Avviene mentre i due si stanno arrampicando in una gola molto stretta. Padre e figlio salgono insieme, affaticati, fianco a fianco; Josh riconosce la grandezza del padre e si fa insegnare la poesia Kubla Khan. Ad un certo punto Frank dice: “Vieni, sali sulle mie spalle” e Josh passa davanti facendo leva sulle spalle del padre. Prima uno si appoggia all’altro per passare oltre, poi l’altro tende la mano e si lascia tirare su. Nessuno dei due ce l’avrebbe mai fatta da solo. Da quel momento è Josh che guiderà la spedizione fino alla fine, quando Frank addirittura lo lascerà andare da solo. È il simbolo della vita: il padre che genera il figlio e poi lo lascia andare; il figlio che sopravvive al padre; il maestro che si fa superare dal discepolo; il discepolo che diventa un uomo capace di vivere diventando a sua volta educatore e maestro di qualcun altro. Frank insegna ad ogni educatore che il proprio compito deve finire: non è possibile e non è giusto legare a sé una persona in un rapporto educativo eterno. L’obiettivo dell’educazione è accompagnare qualcuno a diventare un uomo, capace di camminare con le proprie gambe e capace di affrontare la vita e le sue sfide.

Eppure non sempre è così. C.S. Lewis smaschera le insidie che si possono nascondere nel cuore di un educatore che fa fatica e non riesce a lasciare andare chi gli è affidato e il pericolo che corre l’intera sua azione educativa:

“Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’”amore dono”: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: “Non hanno più bisogno di me” dovrebbe essere anche il momento della nostra ricompensa.
Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare a tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente, ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in una condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un “amore dono” e, come tale, “altruista”.
Non soltanto le madri si comportano in questo modo; rientrano nella stessa categoria anche tutti quegli affetti che, vuoi perché derivati dall’istinto parentale, vuoi perché ad esso simili quanto a funzione, hanno bisogno di sentirsi necessari.
[…] Anche la mia professione – l’insegnamento universitario – è, in questo senso, pericolosa. Se un docente vale davvero, dovrà impegnarsi affinché giunga presto il momento in cui i suoi allievi saranno in grado di essere suoi critici e rivali. Dovremmo provare un gran piacere, una volta giunto questo momento, allo stesso modo che il maestro di scherma è soddisfatto quando un allievo arriva a toccarlo con il fioretto e a disarmarlo. E molti, effettivamente provano soddisfazione. Ma non tutti.”
(C.S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, 1992 pp 52-53)

Luca Buffoni