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lunedì 23 luglio 2012

"SQUADRA... ATTENTI!

Racconto di un’esperienza di formazione educatori ad ambientazione militare
di Luca Buffoni, Elena Della Vedova, Isabella Zilioli



Il dato di partenza era un gruppo di giovani educatori di Preadolescenti e Adolescenti che da poco ha iniziato a camminare insieme verso un progetto comune di unità  di pastorale giovanile. Gli obiettivi individuati sono stati: conoscenza e stima reciproca, formazione del gruppo, lavoro di squadra, autostima. L’esperienza formativa si è concretizzata in una giornata al Military Park di Cavaglià (Bi)[1] attraverso un gioco di ruolo ad ambientazione militare con gli educatori nei panni delle reclute e i formatori nei panni degli istruttori militari.
Il modello di riferimento è stato quello della “formazione esperienziale outdoor”, utilizzato normalmente in campo aziendale. Il termine “esperienziale” fa riferimento all’esperienza, intesa come realtà o situazione vissuta con intensità e globalità, riflessa, interpretata, raccontata[2] e appositamente costruita per conseguire gli obiettivi prefissati.  Outdoor” perché personalità diverse si trovano catapultate in un contesto fuori dall’ordinario, in cui le sicurezze e le incertezze di ognuno non sono più solide ma alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questo contesto le competenze pregresse di ciascuno e del gruppo vengono riorganizzate, trasformate e portate in modo creativo nel proprio contesto ordinario, che in questo caso è il contesto educativo oratoriano.
1. METTERSI IN GIOCO
Cosa significa veramente mettersi in gioco?
Quando un bambino impara a camminare, si mette in gioco.
Quando cade e, tentando di rialzarsi, ricade, si mette in gioco, fino a quando impara a rialzarsi. Quando ci lanciamo in una nuova impresa, o decidiamo di continuare a vivere nonostante una grande difficoltà che ci ha duramente provati, ci mettiamo in gioco. Quando crediamo di non farcela, la vita ci rimette lei in gioco, ma il gioco si fa più duro...
Fin dall’adesione a questa esperienza la parola d’ordine è stata “mettersi in gioco”: lanciarsi in un’avventura sconosciuta e inconsueta senza sapere dove ci avrebbe portato.
L’addestramento militare con le sue difficoltà, gli ostacoli da superare e la fatica fisica ha messo alla prova la forza di volontà di tutti i partecipanti, che senza curiosità e sperimentazione, avrebbero rinunciato subito.
La voglia di mettersi in gioco e la voglia di riuscire, a dispetto di quello che forse gli altri componenti del gruppo pensavano, ha fatto superare a tutti barriere psicologiche e paure.
Queste incertezze, se non fossero state messe alla prova e strappate fuori dall’istruttore, sarebbero rimaste sedimentate in ognuno dei partecipanti.
2. LAVORO DI SQUADRA
“Il gruppo è uno strumento con cui l’organizzazione e  l’individuo membro cercano di raggiungere i propri obiettivi. In chiave sociologica esso esiste nella misura in cui i componenti perseguono scopi che si rivelano interdipendenti.  In chiave psicologica esso esiste nella misura in cui i componenti percepiscono se stessi come perseguenti scopi che si rivelano interdipendenti”
L’esperienza vissuta, a vari livelli a seconda della personalità di ognuno, ha creato tra i componenti del gruppo una rete di relazioni nuove che hanno arricchito il bagaglio culturale di ciascuno, aumentando la conoscenza di sé e dell’altro nelle abilità e nelle incertezze, formando un gruppo di lavoro in cui i membri si sentono maggiormente parte attiva ed effettiva.
La conoscenza dell’altro è alla base del lavoro di squadra, qualunque sia l’obiettivo comune.
3. ORDINE, DISCIPLINA… E PAZIENZA
L’attività che nella giornata di formazione ci ha impegnato per più tempo è stata la prima: l’addestramento formale (imparare cioè a marciare e a muoversi insieme come una squadra). E non è stato un caso: la cosa più difficile da imparare per un gruppo, infatti, è l’arte di camminare insieme, per la quale sono necessari ordine, disciplina e molta pazienza. In ogni situazione di condivisione e di collaborazione, anche nella vita personale e di coppia, questi principi, certamente da non portare all’eccesso, sono da tenere in grande considerazione, perché grazie ad essi, si mantiene il rispetto per l’altro e si prosegue in modo efficace verso la conquista degli obiettivi stabiliti e quindi verso la realizzazione personale e del gruppo. Senza questa partenza non si può costruire nulla.
4. TALENTI E AUTOSTIMA
Nessuno è perfetto, ma tutti hanno la propria isola di competenza, il proprio talento!
Le diverse prove affrontate durante la giornata hanno dimostrato che nessuno è il migliore in tutto, ma che ognuno ha il proprio punto di forza da custodire e mettere a disposizione della squadra. Non si tratta solo di talenti naturali, ma anche attitudini verso un particolare campo di esperienza: chi è più forte fisicamente può non esserlo nell’osservare gli altri; chi ha più barriere e timori, sforzandosi, può comunque ottenere ottimi risultati. Questa differenziazione di attitudini porta il soggetto ad analizzare da un punto di vista diverso se stesso e a prendere coscienza delle proprie potenzialità, aumentando la propria autostima, valore fondamentale per sé e per gli altri.
Solo attraverso l’unione delle forze si può raggiungere l’obiettivo, nel nostro caso l’educazione, perché solo il gruppo può incanalare tutte le energie che scaturiscono dai singoli componenti, creando una squadra che risulta vincente! “Impara a lottare in compagnia, perché nessuno vince una guerra da solo”(P. Coelho)
5. COESIONE DEL GRUPPO
Durante l’attività formativa ognuno doveva svolgere l’esercizio proposto da solo, mentre il formatore recitava la parte dell’antagonista e in diversi modi cercava di mettere in difficoltà. Tutti gli altri stavano a guardare, ma non in modo passivo: ciascuno viveva con chi stava affrontando la prova un’immedesimazione empatica che rafforzava lo spirito di squadra. Ci si sentiva orgogliosi di avere come compagno qualcuno che era riuscito a portare a termine brillantemente l’esercizio nonostante tutti gli sforzi del capitano; ci si sentiva orgogliosi dell’ostinato desiderio, parte di chi faceva più fatica, di non mollare; la fiducia nel gruppo cresceva sperimentando  che il compagno non gode dei tuoi limiti, ma li conosce ed è pronto ad aiutarti quando sei in difficoltà.
6. ORGOGLIO
Nel contesto militare l’orgoglio deve essere lasciato da parte. Per una giornata ciascuno di noi è stato considerato “Recluta”: uguale agli altri senza distinzione, al livello più basso nella gerarchia militare.
In un contesto sociale come quello attuale non esisti se non emergi dal gruppo e ti mostri “migliore” degli altri, calpestando, a volte, regole e persone.
Trovarsi, quindi,  tutti allo stesso livello senza differenze, porta la persona a riflettere sul suo “stare al mondo” e a rivedere, in alcuni casi, le proprie priorità.




[1] L’esperienza si è svolta nella giornata di mercoledì 27 aprile 2011 dalle 10:00 alle 18:00. I partecipanti sono stati 10: 6 maschi e femmine di età compresa tra i 17 e i 28 anni: 1 sacerdote, 4 educatori adolescenti, 5 educatori preadolescenti.

[2] Nella vasta riflessione, specialmente filosofica, riguardante la realtà dell’esperienza, ci interessa richiamare alcuni tratti caratterizzanti la sua struttura di fondo, soprattutto nella sua densità antropologica e nel suo significato ermeneutico, in quanto via di accesso alla comprensione della realtà. Va superata, al riguardo, quella concezione superficiale che identifica l’esperienza col tempo trascorso o con l’insieme delle situazioni vissute o cose viste. Ecco, schematicamente, i principali elementi costitutivi dell’esperienza:
-          Realtà o situazione vissuta. È il carattere di immediatezza, di coinvolgimento personale, di contatto diretto con la realtà. Non si ha esperienza vera soltanto per sentito dire, o come risultato di studio, di lettura, ecc. Per questo suo carattere l’esperienza dona autorevolezza: si rende autorevole chi può testimoniare o attestare qualcosa “per esperienza”.
-          Realtà vissuta con intensità e globalità. Per non rimanere nel superficiale, la realtà oggetto di esperienza deve essere vissuta con una certa intensità in forma globale, cioè coinvolgendo tutta la persona (a livello intellettuale, affettivo e operativo).
-          Realtà riflessa e interpretata. Soltanto attraverso la riflessione e lo sforzo interpretativo la realtà sperimentata acquista significato e viene convenientemente valutata e colta nel suo significato, inserita nel contesto della vita e collegata con altri eventi ed esperienze: “L’interpretazione è l’elemento costitutivo perché dal contatto immediato vissuto si possa imparare qualcosa. Chi va incontro alla realtà senza concetti, senza linguaggio, senza quadri interpretativi, senza ipotesi di lavoro, percepisce soltanto una realtà vaga e indistinta”. Soltanto con questo sforzo interpretativo il vissuto (“Erlebnis”: sentimento intenso) diventa esperienza (“Erfahrung”), e quindi lezione di vita, accesso alla realtà, orientamento esistenziale.
-          Realtà espressa e oggettivata. È il momento espressivo in cui il vissuto viene detto, viene “raccontato”, oggettivato in forme diverse di linguaggio (parola, gesto, rito, condotta, ecc.) Si noti: l’espressione non è solo necessaria per comunicare l’esperienza ad altri, ma diventa mediazione necessaria per l’elaborazione dell’esperienza stessa. Anche qui, come nel processo generale della rivelazione, la “parola” interpreta la vita e ne svela il “mistero: “Per avere un’esperienza, bisogna avere i mezzi per esprimerla, e più ricco è il nostro sistema di espressione e di linguaggio, più sottile, varia e differenziata sarà la nostra esperienza”.
-          Realtà trasformante. Più l’esperienza è profonda e autentica, più si traduce in cambiamento delle persone, che ne escono trasformate, diverse. Ben poca esperienza fanno coloro che non cambiano mai, così come è difficile cambiare veramente vita, se non si vivono esperienze significative. (pp. 108-110)

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