Racconto di un’esperienza di formazione educatori ad ambientazione militare
di Luca Buffoni, Elena Della Vedova, Isabella Zilioli
Il dato di partenza era un gruppo di giovani educatori
di Preadolescenti e Adolescenti che da poco ha iniziato a camminare insieme
verso un progetto comune di unità di
pastorale giovanile. Gli obiettivi
individuati sono stati: conoscenza e stima reciproca, formazione del gruppo,
lavoro di squadra, autostima. L’esperienza
formativa si è concretizzata in una giornata al Military Park di Cavaglià
(Bi)[1] attraverso un gioco di ruolo ad ambientazione militare con gli educatori
nei panni delle reclute e i formatori nei panni degli istruttori militari.
Il modello di riferimento è stato quello della “formazione esperienziale outdoor”,
utilizzato normalmente in campo aziendale. Il termine “esperienziale” fa riferimento all’esperienza, intesa come realtà o
situazione vissuta con intensità e globalità, riflessa, interpretata,
raccontata[2] e appositamente costruita per conseguire gli obiettivi prefissati. “Outdoor”
perché personalità diverse si trovano catapultate in un contesto fuori
dall’ordinario, in cui le sicurezze e le incertezze di ognuno non sono più
solide ma alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questo contesto le competenze
pregresse di ciascuno e del gruppo vengono riorganizzate, trasformate e portate
in modo creativo nel proprio contesto ordinario, che in questo caso è il
contesto educativo oratoriano.
1. METTERSI IN GIOCO
Cosa significa veramente mettersi in gioco?
Quando un bambino impara a camminare, si mette in gioco.
Quando cade e, tentando di rialzarsi, ricade, si mette in gioco, fino a quando impara a rialzarsi. Quando ci lanciamo in una nuova impresa, o decidiamo di continuare a vivere nonostante una grande difficoltà che ci ha duramente provati, ci mettiamo in gioco. Quando crediamo di non farcela, la vita ci rimette lei in gioco, ma il gioco si fa più duro...
Quando un bambino impara a camminare, si mette in gioco.
Quando cade e, tentando di rialzarsi, ricade, si mette in gioco, fino a quando impara a rialzarsi. Quando ci lanciamo in una nuova impresa, o decidiamo di continuare a vivere nonostante una grande difficoltà che ci ha duramente provati, ci mettiamo in gioco. Quando crediamo di non farcela, la vita ci rimette lei in gioco, ma il gioco si fa più duro...
Fin dall’adesione a questa esperienza la parola
d’ordine è stata “mettersi in gioco”: lanciarsi in un’avventura sconosciuta e
inconsueta senza sapere dove ci avrebbe portato.
L’addestramento militare con le sue difficoltà, gli
ostacoli da superare e la fatica fisica ha messo alla prova la forza di volontà
di tutti i partecipanti, che senza curiosità e sperimentazione, avrebbero
rinunciato subito.
La
voglia di mettersi in gioco e la voglia di riuscire, a dispetto di quello che
forse gli altri componenti del gruppo pensavano, ha fatto superare a tutti
barriere psicologiche e paure.
Queste
incertezze, se non fossero state messe alla prova e strappate fuori
dall’istruttore, sarebbero rimaste sedimentate in ognuno dei partecipanti.
2. LAVORO DI SQUADRA
“Il
gruppo è uno strumento con cui l’organizzazione e l’individuo membro cercano di raggiungere i
propri obiettivi. In chiave sociologica esso esiste nella misura in cui i
componenti perseguono scopi che si rivelano interdipendenti. In chiave psicologica esso esiste nella
misura in cui i componenti percepiscono se stessi come perseguenti scopi che si
rivelano interdipendenti”
L’esperienza vissuta, a vari livelli a seconda della
personalità di ognuno, ha creato tra i componenti del gruppo una rete di relazioni nuove che hanno arricchito il
bagaglio culturale di ciascuno, aumentando la conoscenza di sé e dell’altro
nelle abilità e nelle incertezze, formando un gruppo di lavoro in cui i membri
si sentono maggiormente parte attiva ed effettiva.
La
conoscenza dell’altro è alla base del lavoro di squadra, qualunque sia l’obiettivo comune.
3. ORDINE, DISCIPLINA… E PAZIENZA
L’attività che nella giornata di formazione ci ha
impegnato per più tempo è stata la prima: l’addestramento formale (imparare
cioè a marciare e a muoversi insieme come una squadra). E non è stato un caso:
la cosa più difficile da imparare per un gruppo, infatti, è l’arte di camminare insieme, per la
quale sono necessari ordine, disciplina
e molta pazienza. In ogni situazione di condivisione e di collaborazione,
anche nella vita personale e di coppia, questi principi, certamente da non
portare all’eccesso, sono da tenere in grande considerazione, perché grazie ad
essi, si mantiene il rispetto per l’altro e si prosegue in modo efficace verso
la conquista degli obiettivi stabiliti e quindi verso la realizzazione
personale e del gruppo. Senza questa partenza non si può costruire nulla.
4. TALENTI E AUTOSTIMA
Nessuno è perfetto, ma tutti hanno la propria isola di
competenza, il proprio talento!
Le diverse prove affrontate durante la giornata hanno dimostrato che
nessuno è il migliore in tutto, ma che ognuno ha il proprio punto di forza da
custodire e mettere a disposizione della squadra. Non si tratta solo di talenti naturali, ma anche attitudini verso un
particolare campo di esperienza: chi è più forte fisicamente può non esserlo
nell’osservare gli altri; chi ha più barriere e timori, sforzandosi, può
comunque ottenere ottimi risultati. Questa differenziazione di attitudini porta
il soggetto ad analizzare da un punto di vista diverso se stesso e a prendere
coscienza delle proprie potenzialità, aumentando la propria autostima, valore
fondamentale per sé e per gli altri.
Solo attraverso l’unione delle forze si può raggiungere l’obiettivo, nel nostro caso l’educazione, perché solo il gruppo può incanalare tutte
le energie che scaturiscono dai singoli componenti, creando una squadra che
risulta vincente! “Impara a lottare in compagnia, perché nessuno vince una
guerra da solo”(P. Coelho)
5. COESIONE DEL GRUPPO
Durante l’attività formativa ognuno doveva svolgere l’esercizio
proposto da solo, mentre il formatore recitava la parte dell’antagonista e in
diversi modi cercava di mettere in difficoltà. Tutti gli altri stavano a guardare, ma non in modo passivo: ciascuno
viveva con chi stava affrontando la prova un’immedesimazione empatica che
rafforzava lo spirito di squadra. Ci si sentiva orgogliosi di avere come
compagno qualcuno che era riuscito a portare a termine brillantemente
l’esercizio nonostante tutti gli sforzi del capitano; ci si sentiva orgogliosi
dell’ostinato desiderio, parte di chi faceva più fatica, di non mollare; la
fiducia nel gruppo cresceva sperimentando
che il compagno non gode dei tuoi limiti, ma li conosce ed è pronto ad
aiutarti quando sei in difficoltà.
6. ORGOGLIO
Nel
contesto militare l’orgoglio deve essere lasciato da parte. Per una giornata
ciascuno di noi è stato considerato “Recluta”: uguale agli altri senza
distinzione, al livello più basso nella gerarchia militare.
In
un contesto sociale come quello attuale non esisti se non emergi dal gruppo e
ti mostri “migliore” degli altri, calpestando, a volte, regole e persone.
Trovarsi,
quindi, tutti allo stesso livello senza
differenze, porta la persona a riflettere sul suo “stare al mondo” e a rivedere,
in alcuni casi, le proprie priorità.
[1] L’esperienza si è svolta nella giornata
di mercoledì 27 aprile 2011 dalle 10:00 alle 18:00. I partecipanti sono stati
10: 6 maschi e femmine di età compresa tra i 17 e i 28 anni: 1 sacerdote, 4
educatori adolescenti, 5 educatori preadolescenti.
[2] Nella vasta riflessione, specialmente
filosofica, riguardante la realtà dell’esperienza, ci interessa richiamare
alcuni tratti caratterizzanti la sua struttura di fondo, soprattutto nella sua densità antropologica e nel suo significato ermeneutico, in quanto via
di accesso alla comprensione della realtà. Va superata, al riguardo, quella concezione
superficiale che identifica l’esperienza col tempo trascorso o con l’insieme
delle situazioni vissute o cose viste. Ecco, schematicamente, i principali
elementi costitutivi dell’esperienza:
-
Realtà
o situazione vissuta. È il carattere
di immediatezza, di coinvolgimento personale, di contatto diretto con la
realtà. Non si ha esperienza vera soltanto per sentito dire, o come risultato
di studio, di lettura, ecc. Per questo suo carattere l’esperienza dona autorevolezza: si rende autorevole chi
può testimoniare o attestare qualcosa “per esperienza”.
-
Realtà
vissuta con intensità e globalità.
Per non rimanere nel superficiale, la realtà oggetto di esperienza deve essere
vissuta con una certa intensità in forma globale, cioè coinvolgendo tutta la persona
(a livello intellettuale, affettivo e operativo).
-
Realtà
riflessa e interpretata. Soltanto
attraverso la riflessione e lo sforzo interpretativo la realtà sperimentata
acquista significato e viene convenientemente valutata e colta nel suo
significato, inserita nel contesto della vita e collegata con altri eventi ed
esperienze: “L’interpretazione è l’elemento costitutivo perché dal contatto
immediato vissuto si possa imparare qualcosa. Chi va incontro alla realtà senza
concetti, senza linguaggio, senza quadri interpretativi, senza ipotesi di
lavoro, percepisce soltanto una realtà vaga e indistinta”. Soltanto con questo
sforzo interpretativo il vissuto (“Erlebnis”:
sentimento intenso) diventa esperienza (“Erfahrung”),
e quindi lezione di vita, accesso alla realtà, orientamento esistenziale.
-
Realtà
espressa e oggettivata. È il momento
espressivo in cui il vissuto viene detto, viene “raccontato”, oggettivato in
forme diverse di linguaggio (parola, gesto, rito, condotta, ecc.) Si noti:
l’espressione non è solo necessaria per comunicare l’esperienza ad altri, ma
diventa mediazione necessaria per
l’elaborazione dell’esperienza stessa. Anche qui, come nel processo generale
della rivelazione, la “parola” interpreta la vita e ne svela il “mistero: “Per
avere un’esperienza, bisogna avere i mezzi per esprimerla, e più ricco è il
nostro sistema di espressione e di linguaggio, più sottile, varia e
differenziata sarà la nostra esperienza”.
-
Realtà
trasformante. Più l’esperienza è
profonda e autentica, più si traduce in cambiamento delle persone, che ne
escono trasformate, diverse. Ben poca esperienza fanno coloro che non cambiano
mai, così come è difficile cambiare veramente vita, se non si vivono esperienze
significative. (pp. 108-110)
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