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martedì 2 ottobre 2012

Il cammino di Santiago e il Gioco dell'Oca

 
Una tradizione sostiene che il “gioco dell’Oca” sia ispirato al cammino di Santiago e sia stato inventato dai Templari nell’XI secolo. Il gioco aveva inizio a Logroño. E proprio sul pavimento della piazza di questa città, dietro alla chiesa di san Giacomo,  c’è un gigantesco  juego de la oca, opera del XX secolo, che percorre il Cammino di Santiago attraverso la rappresentazione, nelle caselle significative,  delle città e dei monumenti principali. In questa sede non ci interessa indagare sull’origine del gioco ma a partire dalla correlazione fatta in tempi più o meno recenti, e che trova riscontro proprio sulla piazza di Logroño, vogliamo cercare di capire quello che il “Gioco dell’Oca” con le sue regole e i suoi simboli, possa dire a chi si prepara a vivere l’esperienza del Cammino.
 
  1. Il valore simbolico del Gioco dell’Oca.
Per il giocatore superficiale e poco attento varrà, con molta probabilità, il consiglio di rivolgere la propria attenzione a qualcosa di più “moderno”; la ricchezza dell’Oca è tesoro per pochi, per quei pochi che, avendo occhi attenti non per guardare, ma per investigare, rimangono colpiti dalle implicazioni simboliche, dai continui rimandi al pensiero alchemico, della struttura sapienziale che pervade il tutto.[1]
Il “Gioco dell’Oca” è un gioco sostanzialmente simbolico e, come la maggior parte dei giochi di percorso antichi, propone un percorso iniziatico.
- La vita come pellegrinaggio.
Il percorso del gioco è una successione di 7 cicli di 9 caselle (in ogni ciclo la 5° e la 9° casella sono oche). Questi numeri si collegano direttamente alla teoria degli “anni climaterici”, tenuti in grande considerazione dall’astrologia classica: i cicli settenari e novenari segnano infatti gli anni fondamentali della vita umana che, in questo caso, si concluderebbe con il sessantatreesimo anno, chiamato “il grande climaterio”. In questo senso il gioco può essere inteso come una rappresentazione simbolica del percorso stesso della vita, che non è un vagare casuale e disordinato e nemmeno uno stare fermi e mettere le radici ma è un camminare verso una meta precisa, che nel nostro caso è rappresentata dal “Giardino delle oche”.
- Il cammino iniziatico.
 Il “Gioco dell’Oca”, come il labirinto richiede, prima di poter arrivare al traguardo, di affrontare difficoltà e pericoli. Non è scontato che il giocatore riesca ad arrivare alla fine: il suo cammino può interrompersi o ricominciare per diversi motivi e infinite volte. L’unico modo per poter vincere subito, senza fatica e senza continuamente fare affidamento ai dadi sarebbe quello di fare 9 al primo tiro e così arrivare al traguardo saltando di oca in oca. Questa possibilità è esclusa dalle regole:
Chi al principio del Giuoco sortirà con i dadi il n°9 se per in numeri 6 e 3 anderà al n°26, e se per i numero 5 e 4 anderà al n°53.
Il premio finale può essere conquistato solo passando attraverso le prove e le peripezie previste dal cammino che, una volta superate, aprono il giocatore a una nuova visone della realtà.
- Un  percorso di unificazione.
Il percorso del “Gioco dell’Oca” è disposto a spirale, dall’esterno verso l’interno. Per chi lo compie è un percorso di unificazione interiore: dalla pelle al cuore, dalle tante cose che si fanno a chi si è, ritorno in sé e scoperta di sé.
- Il Giardino delle Oche
L’obiettivo del gioco è raggiungere il “Giardino delle Oche”, il centro del tabellone, al quale si accede arrivando con un lancio di dadi esattamente alla casella 63 (la porta del “Giardino delle Oche”). Il “Giardino delle Oche” non è né una casella né un passaggio: è il luogo dove ci si ferma e dove si sta. Non è numerato ed è come se fosse fuori dalla serie e fuori dalla storia. Se fosse numerato sarebbe il numero 64: il numero che per i discepoli di Pitagora rappresentava il duro cammino che dà accesso alla perfezione, numero composto da 6 e 4, la cui somma è 10, ossia la perfezione, l’Unità, il motore immobile, Dio.
- Il Cammino di Santiago
I significati simbolici illustrati sono gli stessi del Cammino di Santiago: il pellegrinaggio come metafora della vita, un cammino iniziatico che dà significati nuovi alla realtà, un percorso di unificazione interiore.
Merita un’attenzione particolare l’identificazione della meta del Cammino di Santiago nei simboli del “Gioco dell’Oca”. Solitamente la tomba di san Giacomo è associata alla casella 58 (la morte) mentre la città di Santiago alla casella 59 (l’ultima oca). Queste due caselle non sono la fine del cammino, che invece prosegue sino a Finisterre (casella 63), la fine del mondo, dove si intuisce la meta vera, che è il Paradiso e la comunione piena con Dio.
  1. Il Significato simbolico dell’Oca
Per la cultura classica l’oca e il cigno erano simbolicamente relazionati alla saggezza, all’iniziazione dei giovani. Nel medioevo il simbolismo si arricchisce della visione celtica, secondo cui l’oca è simbolo dell’aldilà e guida dei pellegrini. I popoli antichi gaelici della Spagna settentrionale attribuivano al maestro l’appellativo di “oca” perché questa rappresentava una sapienza superiore, guida inviata dagli dei. I mastri costruttori delle cattedrali medioevali adottarono la zampa d’oca come simbolo di creatività .
L’oca gode inoltre nell’alto medioevo di un particolare valore simbolico legato alla sua presenza nella tradizione orientale prima e cristiana poi. La nota storia delle oche del Campidoglio, conferisce a quest’animale da cortile, confuso nell’Antichità indifferentemente con il cigno, un ruolo di guardiano che lo accompagna aventi nei secoli. L’oca è compagna e guardiana di san Martino di Tours (315 ca. – 397 ca.), l’oca è nell’XI secolo alla guida dei pellegrini verso Gerusalemme. Ma l’oca selvaggia è anche il bianco volatile ferito da un falco che incanta il giovane Perceval di Chrétien de Troyes (1160-1190) e poi il Parzifal di Wolfram von Eschenbach (1170 ca. – 1220 ca.).[2]
Nel Gioco dell’Oca, quelle con l’oca sono le uniche caselle esclusivamente positive: permettono di avanzare speditamente lungo il cammino. Si dice che sono 13 come erano nell’antichità le 13 tappe del cammino di Santiago e che rappresentassero quei luoghi sicuri sotto la protezione dei templari. Le caselle con l’oca sono d’altronde anche le uniche sulle quali non è possibile fermarsi ma danno una spinta verso la meta. Quante di queste “oche” si incontrano lungo il cammino di Santiago! Possono essere luoghi, persone, parole, celebrazioni, preghiere, eventi, incontri… Nel gioco dell’Oca le oche hanno a che fare con la meta: sono le oche del “Giardino” che entrano nella spirale, prendono il giocatore e lo attirano verso il luogo da cui provengono. È la stessa logica dell’incarnazione: l’uomo non può raggiungere Dio se non è Dio stesso che entra nella storia, apre una strada verso di se e accompagna l’uomo che, da solo, rischia di smarrirsi. In questo contesto Gesù è l’”oca” per eccellenza, come lascia intendere il crocifisso che nella chiesa templare a Ponte de Reina, proprio all’inizio del Cammino, è issato su di una croce che è fatta a zampa d’oca. È lui che dischiude all’uomo la vera sapienza, è lui la nostra guida, è lui il nostro maestro.
  1. Caso o Provvidenza
Malgrado la semplicità delle combinazioni di codesto giuoco, esso offre infatti più distrazione, e un più gran numero di eventi, che non ne offrono molti altri; è rallegrato dalle rozze, ma ben distinte immagini, che lo compongono, si presta ad una serie non interrotta di motti piacevoli, di sorprese, di speranze; egli ha finalmente il vantaggio di procedere dal caso, e di pareggiare per conseguenza le forze dei giuocatori; dà una lezione agli ambiziosi, mostrando loro, che colui chi va troppo lungi, può esser costretto a ritornare indietro, e diviene finalmente l’occasione di mille utili e famigliari insegnamenti, fra i quali non è da mettere in dimenticanza quello che da un vecchio chirurgo di marina fu dato ad alcuni fanciulli, che disputavano fra loro sul senso della parola Caso, ed i quali, come avviene sovente anche fra uomini grandi, dopo una lunga disputa, erano imbarazzati più che mai, e più che mai lontani dall’intendersi fra loro. Il vecchio, pregato da essi d’illuminarli, mostrò loro il giuoco dell’oca: la puglia del giocatore, diss’egli, può del pari andare all’osteria, e al fiume; all’oca trionfante, e alla prigione, o alla morte; i dadi decideranno; i dadi adunque sono l’emblema del Caso.
- Si, rispose in maggiore de’fanciulli: ma i dadi non cadono sempre come dovrebbero cadere: qualche volta mi sfuggono dalla mano; qualche volta la tavola pende; qualche volta pure mi urtano il braccio, e allora…
- Ciò non succede solamente al giuoco dell’oca, replicò il vecchio sorridendo: questo accade spessissimo anche nelle vicende della vita, e nelle cose del mondo; sovente l’umana volontà s’infievolisce nell’eseguire i suoi proponimenti, le circostanze, le passioni l’accecano; non vince sempre la partita colui che dovrebbe guadagnarla.[3]
Chi detta legge, nel gioco dell’Oca, non è la bravura del giocatore ma il lancio dei dadi. Il giocatore, per avanzare sul tabellone e per poter vincere, deve fare affidamento al Caso, al Destino o alla Provvidenza, come meglio si vuole chiamare. Solo quelli che “sanno” usare i dadi troveranno il numero magico, la chiave che apre la porta del lieto giardino dell’Oca.[4] E il gioco dell’oca è iniziatico anche da questo punto di vista, come lo è il Cammino di Santiago, perché ci insegna non a temere i pericoli che il Caso ci riserva nella vita ma ad affrontarli, scoprendo in essi le occasioni (a volte anche dolorose) che la Provvidenza semina nel nostro cammino per diventare veramente uomini e giungere così alla meta. Così è possibile scorgere la mano dell’”oca” che, nascosta nella storia, con cura e pazienza guida la nostra vita. Se osserviamo con attenzione le caselle speciali del gioco e il loro funzionamento comprendiamo ancora meglio. Vediamole nel dettaglio:[5]
Casella 6: il Ponte. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto e salta immediatamente avanti alla casella 12.
Questa casella rappresenta tradizionalmente il ponte romanico di Puente del la Reina, costruito all’inizio del XI secolo da una regina per agevolare il flusso dei pellegrini di Santiago. È il primo e improvviso salto in avanti, un primo vantaggio, seppur piccolo. La casella sembra essere simbolo dell’entusiasmo iniziale, dell’energia istintiva: vantaggiosa ma non esente da pericoli, come ricorda il pagamento del pegno. Essendo il ponte, a differenza delle oche, una costruzione umana, rappresenta anche il debito verso la storia precedente, grazie alla quale i nostri passi si affrettano verso la meta e di cui bisogna essere custodi e responsabili per le future generazioni (il pegno pagato).
Casella 19: l’Osteria “del tempo perduto”. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto e sta fermo un turno.
Questa casella rappresenta gli ostelli e i luoghi dove il pellegrino può trovare rifugio e riposarsi ma anche il luogo dove sono in agguato la pigrizia, l’ubriacatezza, i piaceri e il vizio che fermano e rallentano il cammino.
Casella 31: il Pozzo “dell’errore grave”. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto e sta fermo finché un altro giocatore venga al suo posto a liberarlo.
La casella del pozzo si trova esattamente a metà del cammino: è come se il simbolo ci dicesse che giunti a metà del percorso è possibile commettere l’errore grave di fermarsi, di fissarsi e irrigidirsi nell’orgoglio, nelle posizioni e nelle convinzioni acquisite. Il Pozzo non è per forza la fine di tutto ma da esso si può uscire purificati dall’acqua (a volte il Pozzo è associato al Monte di Gozo, l’ultima tappa prima di raggiungere Santiago, l’ultima occasione per purificarsi) e umili (la consapevolezza che non si può uscire dal Pozzo da soli).
Casella 42: il Labirinto “della scelta del cammino”. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto e torna nella casella dalla quale è arrivato.
Come i labirinti che si trovano disegnati sui pavimenti di molte chiese (anche del cammino di Santiago) la casella 42 impone la prova della pazienza: chi vi capita deve mettere un freno alla sua smania di raggiungere al più presto il traguardo e tornare indietro suoi passi per meditare sulla scelta del cammino. Il labirinto inoltre ci appare come simbolo delle scorciatoie illusorie, del pericolo della fretta e delle decisioni avventate, il pericolo in cui può incorrere il pellegrino sprovveduto che non conosce le regole del Cammino.
Casella 52: la Prigione. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto e sta fermo finché ottiene un 5 o un 7 con 2 dadi.
La Prigione è il luogo dove si è trattenuti non per propria volontà ma è anche un luogo dove i propri passi vengono custoditi, all’insaputa e con il disappunto del giocatore stesso. La prigione custodisce dalla morte, infatti i numeri da ottenere per uscire sono il 5 (con questo numero si arriva alla casella 57, quella prima della morte, rendendo così irraggiungibile la casella 58 perché non è possibile, lanciando 2 dadi, ottenere il numero 1) e il 7 (con questo numero si arriva alla casella 59 e la casella della morte è così superata).
Casella 58: La Morte o La Tomba. Chi capita in questa casella paga il pegno convenuto ma non può proseguire e ritorna all’inizio del gioco.
Questa casella è la più terribile del gioco perché, giunti ormai in vista della fine, ci obbliga a ricominciare da capo. È il simbolo della fatalità, del destino avverso che colpisce nel momento più inaspettato, quando la felicità sembrava a portata di mano. Ma questa casella non è il simbolo dell’annientamento totale ma anche e soprattutto di una speranza, pur nella sciagura: la possibilità di ricominciare il gioco. Questi significati si arricchiscono se pensiamo che questa casella è associata alla Tomba di san Giacomo: la meta del Cammino di Santiago, ma non la meta del gioco della vita. Da Santiago si intuisce la meta con più chiarezza ma siamo costretti a ricominciare la nostra vita quotidiana, arricchiti dall’esperienza vissuta.
Luca Buffoni





[1] N. Valentini, “Il molto dilettevole giuoco dell’oca. Storia, Simbolismo e Tradizione di un celebre gioco.”, Sometti, 2006.

 


[2] A. Papa Sicca, “Animali domestici, selvatici, immaginari” in “Il Medioevo – Barbari, Cristiani, Musulmani” a cura di U. Eco, Encyclomedia Publishers, 2010, p 227.

 


[3] L'ALBUM. Giornale Letterario e di Belle Arti n.51, Anno XII, Roma 14 febbraio 1856.


[4] M. Cepeda Fuentes, “Il gioco dell’oca o guida per il viandante” in “Abstracta” 35, marzo 1999.


[5] La descrizione delle caselle è tratta da D. Ferrero, “La struttura simbolica del gioco dell’oca” in www.labirintoermetico.com

lunedì 23 luglio 2012

"SQUADRA... ATTENTI!

Racconto di un’esperienza di formazione educatori ad ambientazione militare
di Luca Buffoni, Elena Della Vedova, Isabella Zilioli



Il dato di partenza era un gruppo di giovani educatori di Preadolescenti e Adolescenti che da poco ha iniziato a camminare insieme verso un progetto comune di unità  di pastorale giovanile. Gli obiettivi individuati sono stati: conoscenza e stima reciproca, formazione del gruppo, lavoro di squadra, autostima. L’esperienza formativa si è concretizzata in una giornata al Military Park di Cavaglià (Bi)[1] attraverso un gioco di ruolo ad ambientazione militare con gli educatori nei panni delle reclute e i formatori nei panni degli istruttori militari.
Il modello di riferimento è stato quello della “formazione esperienziale outdoor”, utilizzato normalmente in campo aziendale. Il termine “esperienziale” fa riferimento all’esperienza, intesa come realtà o situazione vissuta con intensità e globalità, riflessa, interpretata, raccontata[2] e appositamente costruita per conseguire gli obiettivi prefissati.  Outdoor” perché personalità diverse si trovano catapultate in un contesto fuori dall’ordinario, in cui le sicurezze e le incertezze di ognuno non sono più solide ma alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questo contesto le competenze pregresse di ciascuno e del gruppo vengono riorganizzate, trasformate e portate in modo creativo nel proprio contesto ordinario, che in questo caso è il contesto educativo oratoriano.
1. METTERSI IN GIOCO
Cosa significa veramente mettersi in gioco?
Quando un bambino impara a camminare, si mette in gioco.
Quando cade e, tentando di rialzarsi, ricade, si mette in gioco, fino a quando impara a rialzarsi. Quando ci lanciamo in una nuova impresa, o decidiamo di continuare a vivere nonostante una grande difficoltà che ci ha duramente provati, ci mettiamo in gioco. Quando crediamo di non farcela, la vita ci rimette lei in gioco, ma il gioco si fa più duro...
Fin dall’adesione a questa esperienza la parola d’ordine è stata “mettersi in gioco”: lanciarsi in un’avventura sconosciuta e inconsueta senza sapere dove ci avrebbe portato.
L’addestramento militare con le sue difficoltà, gli ostacoli da superare e la fatica fisica ha messo alla prova la forza di volontà di tutti i partecipanti, che senza curiosità e sperimentazione, avrebbero rinunciato subito.
La voglia di mettersi in gioco e la voglia di riuscire, a dispetto di quello che forse gli altri componenti del gruppo pensavano, ha fatto superare a tutti barriere psicologiche e paure.
Queste incertezze, se non fossero state messe alla prova e strappate fuori dall’istruttore, sarebbero rimaste sedimentate in ognuno dei partecipanti.
2. LAVORO DI SQUADRA
“Il gruppo è uno strumento con cui l’organizzazione e  l’individuo membro cercano di raggiungere i propri obiettivi. In chiave sociologica esso esiste nella misura in cui i componenti perseguono scopi che si rivelano interdipendenti.  In chiave psicologica esso esiste nella misura in cui i componenti percepiscono se stessi come perseguenti scopi che si rivelano interdipendenti”
L’esperienza vissuta, a vari livelli a seconda della personalità di ognuno, ha creato tra i componenti del gruppo una rete di relazioni nuove che hanno arricchito il bagaglio culturale di ciascuno, aumentando la conoscenza di sé e dell’altro nelle abilità e nelle incertezze, formando un gruppo di lavoro in cui i membri si sentono maggiormente parte attiva ed effettiva.
La conoscenza dell’altro è alla base del lavoro di squadra, qualunque sia l’obiettivo comune.
3. ORDINE, DISCIPLINA… E PAZIENZA
L’attività che nella giornata di formazione ci ha impegnato per più tempo è stata la prima: l’addestramento formale (imparare cioè a marciare e a muoversi insieme come una squadra). E non è stato un caso: la cosa più difficile da imparare per un gruppo, infatti, è l’arte di camminare insieme, per la quale sono necessari ordine, disciplina e molta pazienza. In ogni situazione di condivisione e di collaborazione, anche nella vita personale e di coppia, questi principi, certamente da non portare all’eccesso, sono da tenere in grande considerazione, perché grazie ad essi, si mantiene il rispetto per l’altro e si prosegue in modo efficace verso la conquista degli obiettivi stabiliti e quindi verso la realizzazione personale e del gruppo. Senza questa partenza non si può costruire nulla.
4. TALENTI E AUTOSTIMA
Nessuno è perfetto, ma tutti hanno la propria isola di competenza, il proprio talento!
Le diverse prove affrontate durante la giornata hanno dimostrato che nessuno è il migliore in tutto, ma che ognuno ha il proprio punto di forza da custodire e mettere a disposizione della squadra. Non si tratta solo di talenti naturali, ma anche attitudini verso un particolare campo di esperienza: chi è più forte fisicamente può non esserlo nell’osservare gli altri; chi ha più barriere e timori, sforzandosi, può comunque ottenere ottimi risultati. Questa differenziazione di attitudini porta il soggetto ad analizzare da un punto di vista diverso se stesso e a prendere coscienza delle proprie potenzialità, aumentando la propria autostima, valore fondamentale per sé e per gli altri.
Solo attraverso l’unione delle forze si può raggiungere l’obiettivo, nel nostro caso l’educazione, perché solo il gruppo può incanalare tutte le energie che scaturiscono dai singoli componenti, creando una squadra che risulta vincente! “Impara a lottare in compagnia, perché nessuno vince una guerra da solo”(P. Coelho)
5. COESIONE DEL GRUPPO
Durante l’attività formativa ognuno doveva svolgere l’esercizio proposto da solo, mentre il formatore recitava la parte dell’antagonista e in diversi modi cercava di mettere in difficoltà. Tutti gli altri stavano a guardare, ma non in modo passivo: ciascuno viveva con chi stava affrontando la prova un’immedesimazione empatica che rafforzava lo spirito di squadra. Ci si sentiva orgogliosi di avere come compagno qualcuno che era riuscito a portare a termine brillantemente l’esercizio nonostante tutti gli sforzi del capitano; ci si sentiva orgogliosi dell’ostinato desiderio, parte di chi faceva più fatica, di non mollare; la fiducia nel gruppo cresceva sperimentando  che il compagno non gode dei tuoi limiti, ma li conosce ed è pronto ad aiutarti quando sei in difficoltà.
6. ORGOGLIO
Nel contesto militare l’orgoglio deve essere lasciato da parte. Per una giornata ciascuno di noi è stato considerato “Recluta”: uguale agli altri senza distinzione, al livello più basso nella gerarchia militare.
In un contesto sociale come quello attuale non esisti se non emergi dal gruppo e ti mostri “migliore” degli altri, calpestando, a volte, regole e persone.
Trovarsi, quindi,  tutti allo stesso livello senza differenze, porta la persona a riflettere sul suo “stare al mondo” e a rivedere, in alcuni casi, le proprie priorità.




[1] L’esperienza si è svolta nella giornata di mercoledì 27 aprile 2011 dalle 10:00 alle 18:00. I partecipanti sono stati 10: 6 maschi e femmine di età compresa tra i 17 e i 28 anni: 1 sacerdote, 4 educatori adolescenti, 5 educatori preadolescenti.

[2] Nella vasta riflessione, specialmente filosofica, riguardante la realtà dell’esperienza, ci interessa richiamare alcuni tratti caratterizzanti la sua struttura di fondo, soprattutto nella sua densità antropologica e nel suo significato ermeneutico, in quanto via di accesso alla comprensione della realtà. Va superata, al riguardo, quella concezione superficiale che identifica l’esperienza col tempo trascorso o con l’insieme delle situazioni vissute o cose viste. Ecco, schematicamente, i principali elementi costitutivi dell’esperienza:
-          Realtà o situazione vissuta. È il carattere di immediatezza, di coinvolgimento personale, di contatto diretto con la realtà. Non si ha esperienza vera soltanto per sentito dire, o come risultato di studio, di lettura, ecc. Per questo suo carattere l’esperienza dona autorevolezza: si rende autorevole chi può testimoniare o attestare qualcosa “per esperienza”.
-          Realtà vissuta con intensità e globalità. Per non rimanere nel superficiale, la realtà oggetto di esperienza deve essere vissuta con una certa intensità in forma globale, cioè coinvolgendo tutta la persona (a livello intellettuale, affettivo e operativo).
-          Realtà riflessa e interpretata. Soltanto attraverso la riflessione e lo sforzo interpretativo la realtà sperimentata acquista significato e viene convenientemente valutata e colta nel suo significato, inserita nel contesto della vita e collegata con altri eventi ed esperienze: “L’interpretazione è l’elemento costitutivo perché dal contatto immediato vissuto si possa imparare qualcosa. Chi va incontro alla realtà senza concetti, senza linguaggio, senza quadri interpretativi, senza ipotesi di lavoro, percepisce soltanto una realtà vaga e indistinta”. Soltanto con questo sforzo interpretativo il vissuto (“Erlebnis”: sentimento intenso) diventa esperienza (“Erfahrung”), e quindi lezione di vita, accesso alla realtà, orientamento esistenziale.
-          Realtà espressa e oggettivata. È il momento espressivo in cui il vissuto viene detto, viene “raccontato”, oggettivato in forme diverse di linguaggio (parola, gesto, rito, condotta, ecc.) Si noti: l’espressione non è solo necessaria per comunicare l’esperienza ad altri, ma diventa mediazione necessaria per l’elaborazione dell’esperienza stessa. Anche qui, come nel processo generale della rivelazione, la “parola” interpreta la vita e ne svela il “mistero: “Per avere un’esperienza, bisogna avere i mezzi per esprimerla, e più ricco è il nostro sistema di espressione e di linguaggio, più sottile, varia e differenziata sarà la nostra esperienza”.
-          Realtà trasformante. Più l’esperienza è profonda e autentica, più si traduce in cambiamento delle persone, che ne escono trasformate, diverse. Ben poca esperienza fanno coloro che non cambiano mai, così come è difficile cambiare veramente vita, se non si vivono esperienze significative. (pp. 108-110)

giovedì 15 marzo 2012

Espritu Esa Ala, la madre di tutte le grotte

Sanctum (2011) di A. Grierson



Per lo sceneggiatore Andrei Wight, che ha vissuto una storia simile, l’incontro ravvicinato con la morte descritto dal film è un’esperienza che lascia il segno in chi la vive. E così la racconta portando la situazione all’estremo e osservando cosa capita ai protagonisti.
Cos’è Esa Ala, la madre di tutte le grotte? Vogliamo guardarla con gli occhi di Frank, quando prova a spiegare al figlio la sua passione per la speleologia:

Qui sotto riesco a dare un senso ad ogni cosa. Capisci cosa voglio dire? È come la mia chiesa. Posso guardarmi allo specchio e dire: questo sono io, è casa mia.

A muovere Frank non è solo un desiderio di esplorare mondi che nessuno ha mai visto ma è soprattutto quello di esplorare sé stesso, di trovare nella bellezza della natura uno specchio per comprendere e dare senso alla vita. La vita è proprio come Esa Ala: bella e terribile, promettente ma che può da un momento all’altro trasformarsi in un incubo e farci incontrare la morte.

[00:01:36] È proprio di morte che parla la prima scena del film: Josh sommerso dall’acqua al buio privo di sensi. Lo spettatore capisce che il ragazzo, se non è ancora morto, lo sarà presto perché non respira ed è ferito. Quando di colpo apre gli occhi inizia la storia. Sanctum è il racconto di come una scena del genere può comunque trasformarsi e cambiare il suo significato perché anche nella situazione più buia della vita c’è sempre, a volte molto nascosto, un passaggio per la luce ed è possibile trovarlo. Un educatore è colui che sa tutto questo e che accompagna chi gli è affidato attraverso cunicoli tortuosi, bui e sommersi, fino a dargli la possibilità di rivedere la luce e di essere libero. Vediamo come.

I personaggi principali prendono forma con caratteristiche così stereotipate da sembrare caricature e questo li rende molto identificabili: Frank McGuire, il più stimato esploratore speleo-subacqueo del mondo; Carl Hurley, un capriccioso miliardario alla ricerca di avventure mozzafiato ed estreme; Victoria, fidanzata di Carl e abile arrampicatrice; Josh McGuire, figlio di Frank, abile speleologo ma ancora immaturo e ingenuo. Il loro viaggio nel cuore della terra vede Frank nel ruolo di educatore, mentore e maestro del gruppo: l’unico capace realmente di portare in salvo. “È un tipo pazzesco il tuo vecchio, una volta che lo conosci”, confida George a Josh ma quest’ultimo non  è della stessa idea: per lui il padre è solo uno “stronzo spietato nazista”  che ha “trascinato tutti nel suo grande sogno impossibile”. Anche Carl, che considera Frank uno dei massimi speleologi,  sopporta mal volentieri il suo carattere troppo duro, pignolo e insensibile. Eppure, sotto questa apparenza di personaggio senza cuore, si nasconde un’umanità di rara bellezza che merita di essere conosciuta e imitata, almeno per chi vuole imparare qualcosa in più sull’educazione.

1. Perché Frank è il migliore in quello che fa
[00:05:30] Facciamo conoscenza con Frank mentre è in acqua, intento a provare riprovare i movimenti che gli possono essere necessari durante l’immersione. Impressiona molto che sta facendo esercizio non un novellino ma il miglior speleologo del mondo. Frank sa che in un mestiere come il suo, dove anche la più piccola distrazione o inadempienza si può trasformare in un pericolo mortale per sé e per chi sta intorno, non può permettersi di compiere errori. Così eccolo alle prese con se stesso: con la propria storia che si fa esperienza e con il proprio corpo che tiene allenato e pronto per ogni evenienza. Anche un educatore deve sapere bene quello che fa, coglierne l’importanza e la serietà senza essere mai superficiale. Per un educatore, come per uno speleologo, non bastano le buone intenzioni e nemmeno il buon senso: c’è bisogno di una attenta e accurata formazione per fare bene il bene dell’altro. E non solo. Un educatore deve conoscere bene se stesso e deve approfondire sempre di più questa conoscenza per imparare dalla propria storia (che non è né una cosa automatica né facile) e per porre rimedio in tutti i modi, per quanto gli è possibile, ai pericoli che potrebbero rendere inutile o dannosa la sua azione educativa (pigrizia, distrazioni, abitudine,…). Inoltre un vero educatore conosce i propri limiti, e anche questa lezione ci viene da Frank, che più volte ammette: “Sono stanco, devo riposare”. I limiti, se conosciuti e integrati nella propria azione non sono una debolezza: sarebbe peggio e più irresponsabile, anche se molto più comodo, fare finta di niente e andare avanti, come invece fa Judes, che compie l’immersione senza essere pienamente in forma. Ma le conseguenze sono catastrofiche. Il vero educatore sa dove può arrivare e dove no,  non fa inutilmente l’eroe mettendo a repentaglio la propria vita e quella altrui.

Proprio come molti educatori, anche i compagni di avventura di Frank non si rendono assolutamente conto di quello che stanno facendo: si muovono sulla scena (in modo particolare Carl e Victoria), senza sapere dove andare.

Victoria sottovaluta l’impresa che deve realizzare: scende nella grotta come se fosse un passatempo tra tanti e non si accorge della reale posta in gioco. Si stupisce quando sente gli addetti ai lavori parlare di pericoli perché per lei tutto è bello e innocuo: provare a fare la speleologa è un divertimento come un altro. Proprio per questo non sopporta chi, come Frank, prende la cosa con troppa serietà. Victoria è come un educatore superficiale che inizia l’avventura educativa senza sapere bene in cosa consista e senza preoccuparsi di scoprirlo. “Che cosa può andare storto facendo sub in grotta?” è come dire “Perché preoccuparsi tanto? Cosa vuoi che sia?”

Carl sopravvaluta se stesso: conosce bene i rischi dell’avventura ma pensa che siano gli altri a dover stare attenti, quelli più deboli e meno astuti di lui. “Ehi Jim, questa grotta non può battermi”: è convinto che nessuno possa batterlo, nemmeno Esa Ala. Quando però si trova davanti al pericolo reale si accorge di non essere in grado di affrontarlo. Carl è come un educatore che si ritiene migliore di chiunque altro e si butta nella sfida impegnativa dell’educazione convinto di essere in grado di padroneggiarla con le proprie forze, da solo e meglio degli altri, che considera incapaci.

2. Frank non lavora da solo

Frank non lavora da solo: è circondato da molta altra gente che lo aiuta e che rende possibile l’impresa che vuole compiere. Senza le persone che, in diverso modo, collaborano con lui Frank non sarebbe mai arrivato ad esplorare Esa Ala come sta facendo. Ci sono proprio tutti nell’equipe di Frank e tutti sono importanti nel proprio ruolo piccolo o grande. Così c’è Carl con i suoi soldi, Jim che è il riferimento all’esterno, le persone che trasportano il materiale, i tecnici,… e Frank si fida così tanto dei suoi collaboratori da mettere nelle loro mani la sua stessa vita senza pensarci due volte. Così lo vediamo sicuro del preavviso che dall’esterno dovrebbero dare sull’arrivo della tempesta, sicuro che gli ancoraggi siano effettuati bene, sicuro che gli altri sappiano quello che fanno,… . Proprio per questo non accetta la mancanza di responsabilità di alcuni. Questo particolare lo si deduce dal motivo per cui Josh è finito sul “libro nero” del padre: doveva portare le bombole di Beilout e non l’ha fatto, comportandosi come un bambino. Josh è ancora immaturo: non si era accorto che la vita degli altri dipendeva anche dal piccolo impegno che si era preso, anche se apparentemente insignificante. Avere fiducia negli altri è rischioso ma è necessario e questo Frank lo sa bene. E sa anche che ci si può fidare solo di persone responsabili e competenti per quello che sono chiamati a fare, anche se non sono amici stretti. Ogni educatore dovrebbe avere nei propri collaboratori la stessa fiducia che Frank ha nei suoi, senza quindi avere la pretesa di avere tutto sotto controllo ma avendo la certezza che ciascuno, all’interno dell’equipe, porti avanti il proprio compito in modo responsabile. Non può esistere un’ equipe educativa che davvero funzioni, senza che esista come presupposto questa fiducia.

3. Il dramma della libertà

Il tema della libertà nel film è trattato in modo duro e spietato: nella grotta ognuno è libero di decidere se vivere o morire. La strada per la vita è tracciata da Frank, l’unico che può davvero portare a salvezza i protagonisti. Lo speleologo non conosce in anticipo dove sia l’uscita ma conosce il modo per trovarla e chi vuole rivedere la luce deve fidarsi di lui. Il regista ci mostra in modo chiaro che pur nell’oscurità e nel complicarsi delle situazioni, ciò che provoca la morte prima di Victoria e poi di Carl, è la scelta di non fidarsi di Frank. Se la scelta fosse stata diversa forse si sarebbero potuti salvare anche loro.

Da una parte abbiamo la libertà di Frank, che ha deciso di prendersi cura di tutti quelli che sono rimasti intrappolati nella grotta. Non gli interessa se siano simpatici o antipatici, se riconoscano il suo valore oppure no: lui vuole portarli tutti in salvo. Frank si comporta come un vero educatore che è disposto a rallentare il proprio cammino per accompagnare i passi di coloro di cui si deve prendere cura. Quello che sa sulle grotte, quello che la sua esperienza gli ha fatto imparare non è per sé ma viene messo a disposizione degli altri. E allora lo vediamo impegnato in prima persona a creare le condizioni perché tutti possano farcela… e lo fa non tanto con le parole ma con i fatti. È il contrario di quello che fanno tanti educatori, che a parole si prendono cura di tutti ma nei fatti si interessano solo dei più simpatici e amabili, lasciando gli altri al proprio destino.

[00:43:00] Nella scena in cui il gruppo sta per partire dal Campo Base per cercare un’uscita alternativa, Frank si trova nella situazione di un educatore che si deve scontrare con le resistenze di chi non vuole accettare un suo consiglio per un capriccio di orgoglio o perché troppo oneroso. In questo caso l’ostacolo è la libertà di Victoria. E cosa fa Frank? Insiste, alza la voce, cerca convincere, si arrabbia, dà spiegazioni: non vuole arrendersi troppo presto alla decisione di Victoria di non indossare la muta di una morta, quando invece è indispensabile. Solo quando vede che la ragazza è irremovibile, la lascia libera di fare come vuole. E nonostante la decisione presa si fosse rivelata effettivamente quella sbagliata, Frank non la lascia da sola: è sempre lui che, una volta giunti dall’altra parte, si preoccupa di trovare il modo di scaldare Victoria e di salvarle la vita. Si può fare un paragone con il nostro modo di educare: l’educatore è colui che indica la via, fa di tutto per portare chi si affida a lui sulla strada giusta che è la strada della vita, in alcuni casi può fare la voce grossa per far capire l’importanza di quello che sta dicendo e consigliando… ma questo per aiutare l’altro a fare la propria scelta, non per sostituirsi. Il vero educatore è colui che lascia anche la possibilità di sbagliare e di sbagliare in modo clamoroso. Anche in questa situazione l’educatore ha il ruolo importante di non abbandonare colui che ha fatto la scelta sbagliata ma di ricominciare da capo a cercare insieme a lui la via della vita.

4. La guida si lascia guidare

Da Frank traiamo un ultimo insegnamento sulla figura educativa: l’educatore è colui che non solo sa indicare la strada e sa accompagnare chi gli è affidato ma è anche colui che sa tirarsi indietro quando il suo compito è finito. E non solo: l’educatore, essendo anche lui un uomo che cerca la vita, è anche umilmente disponibile a lasciarsi educare.

[01:18] Emblematica è la scena dell’inversione dei ruoli tra Frank e Josh. Avviene mentre i due si stanno arrampicando in una gola molto stretta. Padre e figlio salgono insieme, affaticati, fianco a fianco; Josh riconosce la grandezza del padre e si fa insegnare la poesia Kubla Khan. Ad un certo punto Frank dice: “Vieni, sali sulle mie spalle” e Josh passa davanti facendo leva sulle spalle del padre. Prima uno si appoggia all’altro per passare oltre, poi l’altro tende la mano e si lascia tirare su. Nessuno dei due ce l’avrebbe mai fatta da solo. Da quel momento è Josh che guiderà la spedizione fino alla fine, quando Frank addirittura lo lascerà andare da solo. È il simbolo della vita: il padre che genera il figlio e poi lo lascia andare; il figlio che sopravvive al padre; il maestro che si fa superare dal discepolo; il discepolo che diventa un uomo capace di vivere diventando a sua volta educatore e maestro di qualcun altro. Frank insegna ad ogni educatore che il proprio compito deve finire: non è possibile e non è giusto legare a sé una persona in un rapporto educativo eterno. L’obiettivo dell’educazione è accompagnare qualcuno a diventare un uomo, capace di camminare con le proprie gambe e capace di affrontare la vita e le sue sfide.

Eppure non sempre è così. C.S. Lewis smaschera le insidie che si possono nascondere nel cuore di un educatore che fa fatica e non riesce a lasciare andare chi gli è affidato e il pericolo che corre l’intera sua azione educativa:

“Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’”amore dono”: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: “Non hanno più bisogno di me” dovrebbe essere anche il momento della nostra ricompensa.
Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare a tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente, ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in una condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un “amore dono” e, come tale, “altruista”.
Non soltanto le madri si comportano in questo modo; rientrano nella stessa categoria anche tutti quegli affetti che, vuoi perché derivati dall’istinto parentale, vuoi perché ad esso simili quanto a funzione, hanno bisogno di sentirsi necessari.
[…] Anche la mia professione – l’insegnamento universitario – è, in questo senso, pericolosa. Se un docente vale davvero, dovrà impegnarsi affinché giunga presto il momento in cui i suoi allievi saranno in grado di essere suoi critici e rivali. Dovremmo provare un gran piacere, una volta giunto questo momento, allo stesso modo che il maestro di scherma è soddisfatto quando un allievo arriva a toccarlo con il fioretto e a disarmarlo. E molti, effettivamente provano soddisfazione. Ma non tutti.”
(C.S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, 1992 pp 52-53)

Luca Buffoni